elogio della fuga

Sto bevendo troppo caffé. Mi capita quando sono giù di morale.

Due tazzine al giorno mi bastano per mettermi in uno stato di allerta continuo, e, quel che è peggio, mi rendono ancor più complicato dormire. All'aumentare dell'insonnia aumenta proporzionalmente il consumo di libri. E così finisco per sfogare la mia bulimia libresca ovunque, dall'ipermercato all'angolo al megastore Feltrinelli, scialacquando i miei risparmi in modo sconsiderato, vizio (forse) meno nocivo di altri ma certamente non meno dispendioso.

Fortunatamente, questi miei acquisti compulsivi raramente mi hanno deluso. Cotanta voracità cartacea ha finito per allargarsi anche alle librerie di persone care, e, guarda caso, i migliori libri letti ultimamente mi sono stati consigliati e prestati da amici. Un chiaro segno del destino, mi sembra ovvio.

Ho letteralmente divorato L'eleganza del riccio (E/O, 2007); mi sono poi gustata Né di Eva né di Adamo (Voland, 2008) fino all'ultimo segno di interpunzione.

Firmati entrambi da due autrici francofone (rispettivamente Barbery Muriel e Amélie Nothomb), entrambi sono legati al Paese del Sol Levante. Soprattutto, entrambi sono bellissimi, anche se la mia preferenza va senza dubbio alcuno al secondo.

L'eleganza del riccio necessita di una doverosa rilettura perché, presa dalla mia ingordigia e dalla trama intrigante - l'amicizia tra una ragazzina aspirante suicida ed una portinaia coltissima - ho tralasciato di approfondire alcuni autori e temi filosofici citati dall'autrice e che, ammetto con vergogna, ignoravo completamente. Mea culpa.

Di Amélie Nothomb invece amo l'ironia sottile, e condivido appieno il suo concetto di fuga, magnificamente espresso nelle pagine di Né di Eva né di Adamo:

"Dicono che fuggire non sia un gesto molto nobile. Peccato, è così piacevole. La fuga dà la più grande sensazione di libertà che si possa sperimentare. Ci si sente più liberi a fuggire che a non avere niente da cui fuggire."


e sono rimasta dolorosamente incantata delle sue definizioni sull'amore esplose nell'ultimo capitolo:

"Salvo in caso di crimine ignobile, non capisco la rottura. Dire a qualcuno che è finita è brutto e falso. Non è mai finita. Anche quando non si pensa più a qualcuno, come dubitare della sua presenza dentro di sé? Una persona che ha contato qualcosa conta sempre."

(Amélie Nothomb, Né di Eva né di Adamo, Voland, 2008, trad. it. di Monica Capuani)


E poi c'è quel titolo: Né di Eva né di Adamo. Quando l'ho visto ho sobbalzato. Già, perché è uno dei passi principali di un testo del poeta mistico persiano Jalal ad-Din Rumi che sto preparando per il lavoro con il teatro Nucleo.
Un altro segno del destino, ovvio.

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