questo mio corpo d'acqua



L’abbiamo ballata e riballata questa canzone durante i seminari di TangoTerapia, tanto che mi pareva reale quella gabbia di cui parla il testo, m'immaginavo dietro sbarre bianche di metallo, sospesa nel vuoto. 
Poi un flash. Eh no, caspita, il testo non dice "il mio corpo è dentro una gabbia", bensì "il mio corpo è una gabbia".
Che succede se non c'è nessuno a rinchiuderci, a costringerci, ma la gabbia siamo noi stessi? Che potrebbe succedere se aprissi quella gabbia, che ne verrebbe mai fuori?

Azzardo. Ho un'anima liquida, e la prima a smuoversi, la prima ad uscire sarebbe l’acqua stagnante: rimpianti, rimorsi e questioni irrisolte a fiotti.
Esperienze che nei giorni pari considero fregature tout-court; nei giorni dispari le prendo per preziosi insegnamenti, lezioni di vita per imparare a non giudicare, perché per essere indulgente con me stessa devo prima essere indulgente con gli altri.

Poi c’è l’acqua chiara, quella dell’intuito che a tratti m’illumina; la voglia forte di muovermi in musica, tale da farmi perdere il senso del confine tra il mio respiro e quello di un altro; i sogni notturni che a volte mi fanno ritrovare volti e sguardi nel mondo di giorno, a rimescolare il mio concetto limitato di quel che è razionale e quel che non lo è.

Qualcosa mi dice che c’è un legame tra questi pensamenti e il sogno rock che ho descritto nel post precedente. Devo lavorarci su, l’immagine dei due eschimesi continua a fluttuarmi davanti agli occhi.
Il sonno mi porterà consiglio. Vorrà dire che mi lascerò addormentare dalla musica di Peter Gabriel - decisamente preferisco questa sua versione all'originale degli Arcade Fire, alla faccia del mio spirito purista rock...

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